Presentazione LIBRO DANIELA FAVA
di Domenico Pisana
1. Premessa
“Il bel romanzo non deve essere la storia di un'eccezione. Deve essere un brano della vita di tutti i giorni, in cui ognuno si riconosca, e che tuttavia insegni agli uomini qualche cosa che non tutti vedevano”. Queste parole sono di uno scrittore francese, di origine fiamminga, Maxence Van der Meersch, che espresse le sue convinzioni cattoliche e populiste in numerosi romanzi. Da una delle sue opere del 1933, dal titolo Perché non sanno quello che fanno, ho tratto la citazione che ho letto per rilevare come quello di Daniela Fava sia un “bel romanzo” proprio perché rappresenta un “brano della vita di tutti i giorni”, e perché, come diceva anche Milan Kundera, poeta, saggista e romanziere ceco, nel suo libro del 1986, L'arte del romanzo, il romanzo è “La grande forma della prosa in cui l'autore, attraverso degli io sperimentali (i personaggi), esamina fino in fondo alcuni grandi temi dell'esistenza”.
Daniela Fava riprende anche in questo romanzo un grande tema dell’esistenza umana: l’innamoramento, l’amore, fino ai limiti della follia(“di” amore, “con” amore e “per” amore si vive e si muore), facendolo incrociare con altri temi come la follia, la gelosia, la passione, la gestione delle emozioni, ponendosi in un rapporto di continuità con i suoi romanzi precedenti, ma con una modalità e scelta narrativa che colloca il suo lavoro in una “letteratura di genere”. In questo romanzo, infatti, gli episodi di morte sono una costante, se è vero che dentro la trama narrativa si intersecano tre suicidi e un omicidio:
- Ortensia, che è la protagonista del romanzo, ancora ragazzina, rimane orfana della madre, la quale si suicida non riuscendo a reggere di fronte ad un marito morboso e follemente geloso;
- Fabrizio, non ricevendo corrispondenza d’amore da parte di Ortensia, si suicida, lasciandole una lettera;
- Ortensia, sentendosi ingannata e strumentalizzata da Andrea, che finge di amarla ma in realtà la usa come scommessa di conquista, lo uccide;
- Ortensia, rimasta sola, mimando la scena in cui Giulietta si infligge la morte con un pugnale, si uccide infilzandosi un bisturi, nella cella di un carcere.
2. Il background culturale e letterario dell’opera
Quello di Daniela Fava è sicuramente un romanzo che affronta un tema che ha attraversato la storia della letteratura e che rivela il background culturale e le frequentazioni e conoscenze letterarie dell’Autrice.
Leggendo questo romanzo come si fa a non pensare alla Didone di Virgilio che impazzisce per Enea, all’Orlando Furioso dell’Ariosto quando ci mette davanti la follia d’Orlando, che vaga seminudo nel bosco vaneggiando parole senza molto senso, che usa uomini a mo’ di mazza per colpirne altri e scorrazza per la foresta simile ad un animale, perché l’amore in lui è tanto grande da togliere il senno..
Come si fa a non pensare, e faccio un volo pindarico, al componimento "I dolori del giovane Werther",(‘700) di Goethe, ove troviamo la descrizione del contrasto tra anima razionale e anima sentimentale, affrontando il tema dell'infelice passione d'amore che raggiunge l'estremo dolore quando Werther apprende che il suo amore è ricambiato ma non potrà essere vissuto e alla fine sconfortato e depresso si suicida.
E ancora leggendo questo romanzo come si fa a non pensare
a "Le ultime lettere di Jacopo Ortis"; anche Jacopo, fuggito dalla sua città, Venezia, si rifugia sui colli Euganei dove s'innamora di Teresa, già promessa a un altro uomo. Per porre fine al suo dolore, Jacopo si suicida pugnalandosi al cuore. E ancora, come si fa a non pensare , siamo nell’800, a Bruto e Saffo, i quali, come già Werther e Ortis, incarnano il modello del suicidio eroico, teorizzato dallo stoicismo (Seneca) quale gesto di libertà interiore e come tale ripreso anche dal Catone dantesco.
Come si fa a non pensare al Dialogo di Plotino e Porfirio di Leopardi dove due filosofi neoplatonici parlano del suicidio: Porfirio intenzionato a uccidersi ne difende la validità con argomenti razionali; Plotino, pur concordando con le ragioni dell'amico, tenta di dissuaderlo dall'azione. Il suicidio è un errore, una viltà perché provoca ulteriore dolore nei superstiti rendendo loro più insopportabile la vita. Come si fa a non pensare, ancora, al primo Novecento caratterizzato dal decadentismo e dall’idea, nell'ambito del teatro italiano che, secondo Pirandello, l'uomo non ha altra via d'uscita che il delitto o il suicidio, oppure fingersi pazzo ed esprimere liberamente le sue idee, o ancora accettare tutto rassegnato.
3. L’ambientazione e la dinamica strutturale del romanzo
Nel romanzo di Fava c’è una narrazione infittita di situazioni di morte che potrebbe far pensare ad un giallo, ma in realtà così non è. Quello di Fava non è un giallo quanto, se vogliamo proprio darle una collocazione di genere, un “romanzo noir” (noir, in francese, letteralmente significa “nero”), noir nel senso che la narrazione si colloca dentro luoghi e fatti di ambientazione tenebrosi, oscuri, angoscianti e a tinte fosche.
E difatti tutta l’articolazione narrativa del romanzo si sviluppa tra un’aula di tribunale ed una cella carceraria:
- nella prima parte ci troviamo presso un’aula di Tribunale di Roma.
E’ in atto il processo contro Ortensia, accusata di omicidio. All’interno della narrazione, fatta in prima persona da Ortensia, si inseriscono scene del passato e raccontate in terza persona dall’autrice che ci riportano in Sicilia e a Roma.
- nella seconda parte ci troviamo in carcere nella cella di Ortensia. Ancora una volta è Ortensia a raccontare in prima persona la sua storia; poi si ritorna nell’aula di Tribunale e la scena conclusiva si sposta nuovamente nella cella dove avviene l’atto tragico con cui si conclude il romanzo. Dove sta la linea di demarcazione tra il giallo e il noir!
Nel giallo l’interesse è tutto orientato sul fatto criminoso, sulle ragioni che lo hanno determinato e il finale è spesso consolatorio: nel giallo il colpevole viene sempre assicurato alla giustizia; nel noir il fulcro è dato da un nucleo di sentimenti e pulsioni, c’è una analisi della psiche umana, di reazioni e comportamenti considerati inaccettabili, fuori dalla norma, oltre i limiti della ragione. Nel romanzo noir spesso non vi è conclusione, non vi è una risoluzione del fatto, dell’avvenimento.
Ed è proprio quanto avviene nei 10 capitoli di questo romanzo, dove coesistono storie d’amore, passioni, sentimenti, pulsioni ed emozioni che vanno oltre il limite della ragione, che si trasformano poi in follia e che sfociano nella tragedia della morte. Un romanzo, quello di Fava, dove tutti i personaggi appaiono “sconfitti e vittoriosi al contempo”; un romanzo che racconta fatti, dà chiavi di lettura e tenta di dare il senso della verità; un romanzo noir che si propone in “modo olistico” perché riesce a fare incrociare letteratura, psicologia, sentimenti, razionalità e follia e perfino teatralità.
Entrando dentro la dinamica strutturale del romanzo, tre sono, a mio giudizio, i versanti metanarrativi entro cui si sviluppa il testo:
a. l’esodo come sradicamento dalla propria terra , come attesa
e sogno;
b. l’ innamoramento e l’ amore come consapevolezza del limite e
bisogno di realizzazione e di senso della vita;
c. l’inconoscibilità del “sottosuolo dell’anima umana” tra “resa” e
“sfida” , “sconfitta” e “vittoria”.
- L’esodo come sradicamento dalla propria
terra , come attesa e sogno
Il romanzo parte da una realtà di bellezza: l’amore di due giovani fidanzati, Ortensia e Fabrizio, che hanno delle attese, sognano un futuro di attori teatrali. Vivono in Sicilia, frequentano le scuole superiori, ma sognano il loro “esodo”, il passaggio dal microcosmo geografico, il loro paesino, al macrocosmo territoriale e culturale. Ed è un passaggio che di fatto avviene, si trasferiscono infatti a Roma, e che ha il sapore di un “sradicamento” , di una fuga dalla propria terra e di una liberazione da una condizione familiare opprimente.
E dentro questo quadro di realizzazione di un sogno in cui è stagliata la bellezza di un amore, Fava inserisce il dramma, la nota dolente, un aspetto “noir”, a tinte fosche: la situazione delle famiglie di questi giovani.
Si tratta di famiglie con problemi esistenziali e relazionali. Ortensia vive all’interno di un nucleo familiare dove è presente un rapporto genitoriale privo di sentimenti, dove la madre è solo un oggetto, una donna assoggettata all’autoritarismo e al maschilismo di un marito morboso, molto geloso. E questo non può non avere ricadute negative sull’ethos familiare,e in particolare sulla protagonista del romanzo Ortensia, che, ancora ragazzina, assiste a litigi dei genitori per motivi economici, a gesti di violenza del padre verso la madre che la sconvolgono anche nel sogno, una volta diventata adulta. Insomma un quadro di dramma familiare il cui epilogo diventa l’abbandono all’alcol, il suicidio della madre di Ortensia, determinato da una vita infernale che ha superato il limite di ogni razionalità.
La stessa situazione negativa, sul piano familiare, vive anche il ragazzo di Ortensia, Fabrizio, il quale, già nella sua fase adolescenziale, sa di avere un padre che tradisce la madre in modo costante.
Ecco allora una prima considerazione che scaturisce da questo romanzo sul piano eziologico, cioè sul piano dei fattori interni che condizionano direttamente o indirettamente l’agire umano:
-le ragioni di comportamenti insani, di gesti che vanno oltre il limite della ragione sfociando nella follia o in atti come il suicidio o l’omicidio , vanno ricercate nel tessuto familiare, nell’assenza di una positiva relazione genitoriale, nei “danni psicologici ed emotivi” che genitori con disfunzioni relazionali possono creare sui propri figli.
b.L’ innamoramento e l’ amore come consapevolezza del limite e bisogno di realizzazione e di senso della vita
Il sogno di Ortensia e di Fabrizio in qualche modo si realizza. A Roma frequentano l’Accademia, diventano attori professionisti. Ma parallelamente al raggiungimento di questo obiettivo teatrale, si verifica nell’esperienza relazionale dei due giovani fidanzati un arretramento sul piano affettivo: il loro rapporto è vero e profondo, vivono insieme nella stessa casa, condividono la stessa passione per il Teatro, ma Ortensia e Fabrizio si trovano su due piani diversi:
Fabrizio è innamorato pazzamente, vede addirittura in lei la sua “dea”, come la chiama solitamente, racchiude in lei il senso del suo vivere, mentre Ortensia con il tempo capisce che quello che prova per Fabrizio non è amore, trova in lui un amico profondo, un compagno di viaggio, ma al di là di questo sente che il rapporto è abituale, monotono e insignificante.
E qui il romanzo di Daniela Fava tocca, sul piano psico-sociologico, un tema che ha attraversato da sempre la storia letteraria: l’innamoramento e l’amore.
L’innamoramento non è automaticamente amore, lo diventa quando si verificano alcuni fatti.
Ortensia e Fabrizio sono entrambi innamorati perché vengono da una esperienza di insoddisfazione, di dramma familiare, di senso della nullità e della vergogna, di delusione profonda, radicale su se stessi, e allora trovano nella loro relazione una risposta, forse consolatoria.
Però mentre Fabrizio innamorandosi cambia radicalmente la sua vita , capisce che il suo innamoramento non è un semplice fatto emozionale, passeggero, momentaneo, ma al contrario è diventato amore perché vede negli “occhi neri” e nella “calda voce” di Ortensia che “lo svegliava al mattino” una persona unica, originale, straordinaria e che lo stupore del suo amore scaturisce dal trovare risposta da questo essere così unico e straordinario che – come scrive l’Autrice – “aveva filtrato ogni suo tessuto”, al punto che “ogni minuscola particella del suo sangue era tutta penetrata dall’amore” per la sua amata, Ortensia, invece, non ha fatto questo passaggio verso l’ amore che ti prende dentro e ti cambia; anzi per sfuggire alla noia e alla banalità del suo rapporto in corso, cede alle lusinghe di Andrea, un giovane direttore di agenzia pubblicitaria , di buone condizioni economiche, proprietario di appartamenti che la conosce per la prima volta allorché si reca a teatro per vedere la prima di “Romea e Giulietta”, interpretata proprio da Ortensia e Fabrizio.
Ad un innamoramento che si affievolisce non tramutandosi in amore, il romanzo mette ad incastro un altro innamoramento: quello di Andrea per Ortensia; Andrea, – si legge nel romanzo - aveva trovato nel suo sguardo qualcosa di sorprendentemente affascinante e, anche se tutte le altre donne che aveva incontrato erano più belle, c’era in lei qualcosa di diverso in grado di far palpitare il suo cuore, da non somigliare a nessun’altra, così che guardandola induceva a riempire le sue notti di dolci sogni, desiderando quelle stesse carezze con le quali sulla scena aveva riempito Romeo”.
Questo innamoramento di Andrea diventa concretezza: egli conosce infatti Ortensia, la corteggia, le scrive poesie, frasi d’amore mediante email, si arriva ai primi baci, alla passione e la follia di un istante diventa realtà quotidiana.
Ma anche in questo nuovo intreccio amoroso il romanzo di Fava fa notare i due piani diversi su cui si muovono Andrea e Ortensia: -paradossalmente, questa volta è Ortensia a sentire, come accadeva a Fabrizio, che Andrea è singolare, unico, straordinario, è un uomo che ama con forte ardore, da pensarlo continuamente, vederselo sempre accanto ed esserne follemente gelosa;
-quello di Andrea è invece un fatto emozionale, una mera attrazione erotica, è una sorta di gioco, una scommessa fatta con il suo amico,”una scommessa – si legge nel romanzo - come si scommette per una corsa di cavalli”, un tentativo banale di rendere schiava Ortensia: nulla di più.
Esplode, a questo punto, un ulteriore dramma esistenziale.
Mentre Ortensia si allontana sempre più dal suo Fabrizio che la ama follemente, scopre l’inganno di Andrea, che è invece fidanzato, che deve sposare Annalisa. Si sente disperata, delusa, tenta perfino di impedire il matrimonio andando a parlare con il sacerdote che lo deve sposare, nutre sentimenti di vendetta per essere stata ingannata, si sente morta e ferita nello spirito e tenta, fino all’ultimo, di evitare che il matrimonio avvenga, presentandosi persino in chiesa mentre l’organo già intona l’Ave Maria.
C’è qui il dramma di una esistenzialità fallita, di una donna che si sente tradita nell’essenza più profonda della sua coscienza e che non riesce a riprendersi nonostante la fama e i successi teatrali, nonostante le numerose offerte di lavoro. C’è il dramma di una donna che ama l’uomo sbagliato e che nel mentre lo ama lo odia, ma c’è anche il dramma di Fabrizio che ama la donna che ha il cuore occupato da un altro e che pertanto non gli corrisponde questo amore.
Due drammi che si incrociano e si intrecciano e che sfociano nella follia della morte e che Fava narra con uno scavo psicologico profondo, con una tecnica narrativa e di scrittura efficace, emotivamente carica di pathos.
Anzitutto il dramma di Fabrizio che piange, supplica Ortensia a riprendere la relazione e che vive una conflittualità interiore fino al punto di pensare di vendicarsi e di strangolare Ortensia.
La soluzione diventa invece un’altra, il suicidio: Pensò al suicidio come la possibile conclusione di un vissuto interiore doloroso e dilaniante che si portava dentro sin da piccolo, ogni volta che aveva visto la madre piangere per l’indifferenza di suo padre, le volte in cui aveva avuto bisogno di lui ma, questi, era con un’altra donna. La morte, dunque, gli sembrò in quel momento la possibile soluzione ai propri problemi ed al proprio dolore.
Prima di compiere il suo gesto folle, volle fissare il suo intendimento su un foglio bianco, rivolto a colei che lo aveva ferito nell’orgoglio e nei suoi sentimenti.”
E’ un suicidio per amore che Ortensia subisce come condanna. Lei si era già pentita di aver lasciato Fabrizio, stava per ritornare da lui, ma era troppo tardi: lo trova morto e non le rimane che leggere la lettera che Fabrizio le ha lasciato.
E qui ancora una volta il romanzo porta sulla scena il dramma dilaniante di Ortensia che cade in una sorta di regressione psicologica ed esistenziale: diventa sempre più malata, fa debiti, fa la commessa, rivive la memoria familiare perché cede, come sua madre, all’alcool, e l’unico sostegno lo trova in un amico, Luca, che cerca di aiutarla.
E proprio mentre cerca di riprendersi gli si riapre la ferita: irrompe nuovamente Andrea, l’uomo che l’aveva fatta sognare, che lei aveva amato ma che l’aveva ingannata. E’ un ritorno doloroso, perché la storia, nonostante Andrea fosse sposato, ricomincia nuovamente, ma Ortensia non è più quella bella attrice desiderata di un tempo, famosa e invidiata; Ortensia riesce a riprendere una relazione sentimentale con Andrea, ma lo ama e lo odia allo stesso tempo, lo segue in ufficio, lo pedina, è follemente gelosa fino al punto di passare le notti in macchina, sotto le finestre della casa di Andrea, e vedere l’ombra della moglie abbracciata a quella dell’uomo.
Il romanzo di Fava anche nella descrizione del dramma di Ortensia è coinvolgente, fa immedesimare il lettore, come in una fiction, nel cuore di una donna che piange, che batte perfino la testa contro le pareti del muro provocandosi dei sanguinamenti, di una donna che sa di poter aver un uomo solo per pochi minuti, per un bacio veloce e dieci lacrime e che alla fine, quando la sua mente è annebbiata dalla follia e dalla gelosia, decide il gesto omicida: infatti uccide Andrea, massacrandogli il cranio con un sasso e aprendosi la strada del carcere. Un gesto omicida per il quale accetta la condanna che gli viene inflitta e che – mentre parla in Tribunale davanti al giudice – definisce come un atto di libertà e di liberazione. Ma la liberazione in realtà non era ancora completata. Il romanzo riserva infatti l’ultima scena : Ortensia si ricrea nella mente il palcoscenico teatrale in cui Giulietta si infligge la morte con un pugnale, e quasi teatralizzando il testo di Shakespeare si suicida nella sua cella con il bisturi che aveva rubato in infermeria. Nell’irrazionale, secondo i protagonisti del romanzo, trovano approdo giustizia e vendetta.
c. Il messaggio del romanzo: l’inconoscibilità del “sottosuolo
dell’anima umana” tra “resa” e “sfida” , “sconfitta” e
“vittoria”
Quale problematica intende sollevare questo nuovo romanzo di Fava.
Quale giudizio critico si può esprimere sul piano della sua collocazione letteraria.
Io credo che con questo romanzo l’Autrice ripropone, chiaramente con la sua sensibilità e i suoi sentimenti, quello che è un classico già esistente nella letteratura e nella narrativa del ‘900, e cioè il rapporto tra l’ eroe, in genere, il protagonista del romanzo/tragedia, e l’anti-eroe.
L’eroe è colui che non sbaglia, ha una moralità salda e incorruttibile, combatte, soffre; l'eroe è colui che riesce sempre a portare a termine il suo ruolo/impresa/missione, talvolta anche grazie al sacrificio.
L'anti-eroe è l'esatto contrario. Non significa però antagonista, che se vogliamo è un eroe del male. L'anti-eroe è Mattia Pascal in Pirandello, è Encolpio nel Satyricon di Petronio. L'anti-eroe è un personaggio che vive in un mondo prosaico, infelice, negativo e sminuente. Egli avverte il disagio della propria epoca e condizione sociale/culturale/politica, ma a causa delle caratteristiche personali (codardia, indolenza, pigrizia, inettitudine, incapacità di reagire, impotenza ecc..) egli non riesce ad ottenere risultati. Accade che egli muoia, oppure si arrenda, oppure ancora abbia ben chiara la sua missione ma per indolenza o svogliatezza o impotenza non la intraprenda nemmeno. Collocare il romanzo di Fava esclusivamente in questa prospettiva, significherebbe fare una operazione alquanto riduttiva.
Io credo che questo romanzo di Fava consenta di aprire una riflessione psico-sociale utilizzando quel filone di critica letteraria che si muove nell’ambito dell’indagine strutturalista e della psicoanalisi freudiana. Quello del suicidio per amore di cui la letteratura parla, non può essere, a mio avviso, liquidato come gesto di inettitudine, di impotenza, di risposta fallimentare alla capacità di vivere.
E’ possibile “intus-legere” un omicidio per amore? Come si può spiegare un suicidio per amore? La protagonista del romanza indica una pista di risposta. Ascoltiamo le sue parole:
“… L’unica cosa che posso dirle è che mi ero liberata di tanta sofferenza chiusa dentro da diversi anni, sin da quando ero piccola. Quell’atto estremo è servito a chiarirmi e a conoscermi, ma soprattutto a farmi giustizia, riscattandomi dalle umiliazioni subite, per non essere stata amata dall’uomo che mi aveva illusa dicendomi di amarmi…”.
Il più delle volte il suicidio è la conclusione di un vissuto interiore personale, doloroso e dilaniante, nel quale la ragione cede il passo all’irrazionalità aggressiva. “In un primo momento la persona che soffre per la fine di un amore comincia a prendere in considerazione l'idea di suicidarsi, non in maniera veramente intenzionale, ma come una possibile soluzione alla fine stessa dell'amore ed al proprio dolore. Il suicidio viene visto, sia da Fabrizio che da Ortensia e sua madre, come un'ultima via di fuga da percorrere nel caso che gli eventi e la propria situazione precipitasse. Ciò dà la possibilità d'iniziare ad immaginare la propria morte in maniera positiva. Non si ha più paura di essa, ma la si vede come un'”amica” che ci darà conforto e sollievo.
Nel romanzo di Fava, quelli di Fabrizio e di Ortensia sono suicidi come "reazione" ad una situazione che si ritiene disperata, quella di aver perso l’ unico e grande amore. Quello che è importante non è solo l'evento in sé, ma il significato che questo assume per la persona che sta male. Il suicidio appare, allora, come l'unico mezzo per porre fine alle proprie sofferenze che vengono vissute come intollerabili.
Quello di Fabrizio e Ortensia è un suicidio come "vendetta".
Spesso le persone vittime di una separazione pensano al suicidio perché non si sentono amate e considerate da chi ha lasciato. Il suicidio diventa l'unico modo per essere finalmente visti e apprezzati da quest'ultimi. L'aspirante suicida è convinto che solo con un gesto estremo come quello di togliersi la vita, potrà far sì che l'altro si accorga finalmente di lui. Il suicidio diventa un modo per vendicarsi dell'indifferenza o della cattiveria dell'altro: costui sarà costretto a vivere tutta la sua vita, portandosi dietro il peso insostenibile della colpa e del rimorso.
4. Conclusioni
In questo romanzo vi si trova una riflessione sulle dinamiche dell’inconscio e una tendenza all’autoanalisi che richiamano alcuni fondamenti della letteratura e della psicoanalisi freudiana : in particolare la “doppiezza psicologica”, la compresenza di spinte contrastanti e contraddittorie nell’io più profondo, e gli stati di allucinazione e di delirio, in cui viene alla luce il “sottosuolo” dell’anima.
Da questo romanzo ci viene un input a considerare il comportamento suicida ed omicida non solo dal punto di vista oggettivo, bensì anche da quello soggettivo, e quindi anche con gli strumenti della psicologia. In chiave psicoanalitica i suicidi di Ortensia e Fabrizio potrebbero essere interpretati dal lettore come il punto culminante dell’evoluzione di una infermità psichica, ma anche non necessariamente come espressione di follia o di una malattia psichica.
Se l’atto del suicidio possa mai essere compiuto in maniera “razionale” e libera è una questione discussa e ancora aperta; in effetti è difficile poterlo capire, anche perché dalla storia ci vengono casi di suicidio dove il confine tra “follia” e “motivazione di senso” o in alcuni casi anche motivazione ideale, è quasi impercettibile.
Potremmo, ad esempio giudicare folle il gesto di Apollonia, vergine di mirabili qualità, che nel 250 d.C, al tempo delle persecuzioni dell’imperatore Decio, si butta nel fuoco morendo bruciata? Come giudicare il gesto di Pelagia, una quindicenne che nel 284 d.C, per sfuggire ai soldati durante la percezione di Numeriano , li prende anzitutto in giro , dice loro aspettami, datemi il tempo di vestirmi, se ne va nella sua stanza, si mette il vestito più bello, fa fessi i soldati e si getta dall’alto della sua casa e muore? Possono giudicarsi folli le tre donne di Antiochia Bernice, Domnina e Prosdocia, le quali nel 280 d.C. “si avvolsero con modestia i vestiti intorno al corpo, e giunte a metà strada chiesero alle guardie di ritirarsi un attimo, quindi si gettarono nel fiume che scorreva vicino? Da sole dunque si tolsero la vita. Questi gesti suicidi che vengono narrati da Eusebio di Cesarea nella sua “Storia Ecclesiastica”, quale sentimenti suscitano? Debbono o possono essere considerati gesti oltre il limite della ragione o scelte di ragione? Lascio alla coscienza collettiva la valutazione! Dal romanzo di Fava appare con una certa chiarezza che quelli di Ortensia e Fabrizio sono suicidi attuati con lucidità e meticolosità, con freddezza e determinazione, se è vero che Fabrizio lascia anche una lettera a Ortensia per spiegarle il suo gesto suicida.
L’Autrice ci dà nel romanzo una visione della morte molto vicina al pensiero di filosofi dell’800 come Schopenhauer, il quale afferma , ma chiaramente egli rifiuta il suicidio, la morte è “una provvidenziale liberazione da lunghe e tormentose, insanabili sofferenze”, come di fatto è stata per i protagonisti di questo romanzo; di avviso diverso appare Nietzsche, il quale afferma “Io lodo a voi la morte, la morte libera, che viene a me perché io la voglio”(in, “Così parlo Zarauthustra”).
Leggere questo romanzo è come entrare in un labirinto, dentro il quale si assiste a scene di morte. Il lettore ha due possibilità: la “resa al labirinto” o la “sfida al labirinto”. Arrendersi significa accettare il suicidio come soluzione e quasi come una scelta da imitare; la sfida, invece, porta ad avere anzitutto un rispetto nei confronti di una persona che compie un gesto oltre i limiti della ragione, non per fanatismo o per follia; la sfida, di fronte ad un uomo che compie un gesto estremo, non significa emettere un giudizio di condanna o di assoluzione, ma affermare che è meglio continuare a vivere per combattere per quegli ideali in cui si crede, piuttosto che fuggire dalla vita e così da ogni ulteriore possibilità di impegno.
Scegliere la “resa” significa ammettere – come direbbe Goethe, in I dolori del giovane Werther, 1774, che “è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa”; scegliere la “sfida” significa resistere al dolore e non “abbandonare il capo di battaglia prima di aver vinto”.
Ed io credo che la vita è un campo di battaglia anzitutto interiore e spirituale nel quale vale la pena sempre combattere perché - come dice il poeta indiano Tagore – “la vita non è che la continua meraviglia di esistere”.
Ispica, 22 aprile 2012 Domenico Pisana
Cfr.http://lnx.whipart.it/html/modules.php?name=News&file=article&sid=418